Giacomo, il prepotente

di Giuseppe Manfridi

 

con in ordine di apparizione:

Massimo De Rossi Giacomo Leopardi

Maurizio Donadoni Antonio Ranieri

Fulvia Carotenuto Paolina Ranieri

Antonella Schirò Lucella

Elisabetta Pozzi Paolina Leopardi

 

scene Franco Autiero

costumi Annalisa Giacci

musiche originali Carlo De Nonno

organizzazione Melina Balsamo

direttore della fotografia Eraldo Fava

direttore di produzione Guido Balzola

ottimizzazione Cristina Gerardo

 

regia teatrale e televisiva Piero Maccarinelli

 

allestito in collaborazione con RAI 2 in occasione del bicentenario della nascita di Giacomo Leopardi

messa in onda il 09/06/1998 per Raidue Palcoscenico

 

Giacomo, il prepotente, racconta, in tre atti, gli ultimi giorni di Giacomo Leopardi come spiati da altrettanti buchi della serratura. Ogni atto, infatti, è ambientato in una diversa camera da letto. Giuseppe Manfridi, scrittore di punta di una nostra new wave letterario-teatrale, è nel suo Giacomo, il prepotente che celebra in tre atti altrettante camere da letto leopardiane, a Torre del Greco, a Recanati e a Napoli con la regia di Piero Maccarinelli. Ci mostra tre camere da letto sotto forma di altrettanti lazzaretti, e una pièce in tre atti che non bada a intimità, non teme lo scandalo dei panni sporchi mettendo qui il dito nelle piaghe di un Leopardi vicino ormai a consumarsi, a morire. Quella di Ranieri in campagna nel primo atto; quella di Leopardi a Recanati nel secondo, dove però non c’ è il poeta ma sua sorella Paolina che raccoglie delle cose per lui da affidare a una serva di Ranieri; e in fine la camera napoletana dove Giacomo muore. La prima è quella di Villa Ferrigni, a Torre del Greco, dove il poeta, già molto malato, venne portato dall’amico Ranieri per sfuggire i miasmi del colera che imperversava a Napoli. Il pretesto che costringe i due al dialogo, spingendoli sino alle soglie delle più scabrose intimità, è l’ostinazione di Giacomo a non volersi calare in una tinozza d’acqua tiepida. Nel primo atto Leopardi non vuole fare il bagno che gli è stato preparato, e resiste dunque con abilità e civetteria alle pressioni affettuose ma anche fisiche di Ranieri; nel secondo Paolina confessa i suoi sentimenti di sorella, di zitella e anche di donna nevrotica con torrenziale impudicizia; nel terzo l’agonia di Giacomo è ingentilita ma anche fatta più dolorosa da una dichiarazione d’amore della serva di famiglia. Quel che si legge davvero in questo testo è una serie di variazioni sul tema della normalità e dell’amore, o della loro mancanza. E proprio come esercizio di morfologia del sentimento, la commedia è moderna ed efficace. Ma buona parte di quest’efficacia è affidata al lavoro degli attori, alla loro capacità di rendere credibili frammenti di vita e di rapporti piuttosto estremi. A ciascuno dei personaggi, Manfridi s’è sforzato di riservare un proprio linguaggio, suscettibilità di estro e deliri di asma, accenti burberi, gerghi vetusti e indesiderati, vernacolo da analfabeta, sintassi napoletana di buona famiglia. Una sola espressione è comune a tutti: l’ansia d’amore che prende l’essere umano, che i personaggi manifestano in modi opposti, sempre esorcizzando la brutta fine di Giacomo Leopardi. Manfridi al suo Giacomo non fa dire poesie, non lo fa discutere di teorie estetiche o filosofiche e neppure quasi della sua vita, a parte alcuni accenni al padre e a Paolina. Insomma, potrebbe essere qualunque uomo molto malato, molto affascinante e molto strano come spesso sono le persone di genio.

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